La produzione di mais dagli anni ’90 del secolo scorso fino ad oggi è cresciuta stabilmente in modo da raggiungere nel 2006 circa 700 milioni di tonnellate con un incremento del 40% rispetto a circa 500 milioni del 1990.
Nello stesso periodo di tempo la superficie utilizzata per coltivarlo è salita da circa 130 milioni di ettari a oltre 144 milioni di ettari, con una variazione del 12%. La coltivazione del mais risulta diffusa nelle principali aree agricole del mondo anche se essa è presente in ognuna di esse con caratteristiche diverse.
l primo posto fra i produttori mondiali si collocano gli Usa con 30 milioni di ettari pari a poco più del 20% del totale mondiale e una produzione di 270 milioni di tonnellate corrispondenti al 40% di quella complessiva. Al secondo posto si trova la Cina, con 27 milioni di ettari, 18% del totale mondiale, e 145 milioni di tonnellate, 19%, al terzo posto il Brasile con 12,6 milioni di ettari (7,8%) e 42 milioni di tonnellate (5%), al quarto il Messico con 7 milioni di ettari (5,5%) e 21,5 milioni di tonnellate. I primi quattro Paesi totalizzano il 51,6% della superficie e il 67,5% della produzione. Se si considerasse l’Ue a 25 con il 4,1% della superficie e il 7,2% della produzione come un aggregato unico, la concentrazione dei primi 5 produttori salirebbe al 55,7% della superficie e al 69,7% della produzione. Da notare che fra i primi 15 produttori troviamo in settima posizione la Francia e in decima l’Italia. Il livello di concentrazione di superfici e produzioni è sostanzialmente analogo a quello che si può riscontrare anche per frumento e riso, ma cambiano in maniera abbastanza rilevante i primi cinque produttori. Per il riso, infatti, essi appartengono tutti all’Asia Orientale, per il frumento oltre a Cina e India vi sono gli Usa, la Russia e l’Ue a 25 che sarebbe il principale produttore mondiale. Nel caso del mais, come abbiamo visto, rimane fra i Paesi asiatici la Cina e aumenta il peso delle Americhe e dell’Europa.
Scambi internazionali
A differenza di altri prodotti agricoli, nel caso del mais la quota di produzione oggetto di scambio a livello internazionale risulta relativamente elevata. È forse il caso di ricordare che, rispetto ad altre categorie di prodotti, quelli agroalimentari rivestono un elevato valore strategico a causa della necessità dei singoli Paesi di non scendere al di sotto di livelli di autoapprovvigionamento idonei a garantire la sicurezza alimentare nel caso di eventi di grande portata come conflitti, periodi di carestia, gravi fenomeni atmosferici. In questa logica si spiega il fatto che in genere la maggior parte dei Paesi tenda a favorire, attraverso opportune politiche di sostegno, le produzioni agricole locali maggiormente interessate da una forte domanda interna. Per altri versi si deve constatare come, per i prodotti agricoli che costituiscono le cosiddette commodities, siano più facili scambi fra diversi paesi per contribuire al soddisfacimento delle esigenze che superino le necessità strategiche. In quest’ottica, dunque, si pone il caso del mais che a livello mondiale registra un volume di scambi attorno ai 90 milioni di tonnellate nel triennio 2002-2004 su una produzione di circa 650, per una quota pari al 13%-14%, un valore che per esempio è circa il doppio di quello relativo alle carni o ai latticini. Se si confronta questo valore con quelli corrispondenti rilevati nei tre decenni precedenti, si vede che fra il 1972 e il ’74 era al 14,5%, dieci anni dopo era salito al 16,6%, mentre negli anni ’92-’94 si era contratto al 13,1%. Le fluttuazioni di questa percentuale sono da collegare a fenomeni di segno diverso, ma sostanzialmente riconducibili alla dinamica della domanda nei Paesi importatori. La dinamica dei prezzi medi all’esportazione e all’importazione nel periodo 1990-2005 espressa in US$/t appare di fatto stazionaria, anche se si possono rilevare alcune fluttuazioni e in particolare un primo picco nel 1996 seguito da un periodo di progressiva riduzione con minimi fra 2000 e 2001 e successivamente da una fase di ripresa negli anni seguenti, in particolare nel periodo più recente in cui le quotazioni hanno risentito di una generale crescita dei prezzi delle materie prime.
Impieghi del mais
Alla base della grande e costante diffusione della coltura del mais si collocano sostanzialmente due aspetti ai quali abbiamo già fatto cenno e cioè, da un lato, la sua grande adattabilità alle diverse condizioni ambientali che ne permette la coltivazione in numerose e vaste aree e, dall’altro, la sua versatilità negli impieghi che rappresenta un requisito quasi unico, almeno fra le principali colture. L’utilizzo principale è costituito dall’alimentazione animale che, su scala mondiale, assorbe poco meno dei due terzi dell’offerta complessiva. Questa quota è peraltro il risultato di una serie di situazioni molto diverse legate alle condizioni generali dei singoli Paesi. In linea di massima si può notare che la destinazione all’alimentazione animale è maggiore nei Paesi sviluppati nei quali è più forte il consumo di carni e derivati del latte mentre lo è meno in Paesi a livello di sviluppo minore o nei quali le consuetudini alimentari siano basate su modelli diversi da quelli dei Paesi occidentali forti consumatori di alimenti di origine animale. Al terzo posto negli impieghi si colloca la trasformazione industriale per usi alimentari come per esempio la produzione di amido o quella, sviluppata più di recente, dei dolcificanti. Le perdite a livello mondiale rappresentano circa il 4% del totale delle disponibilità, ma si può rilevare, in realtà, che il loro ammontare è molto variabile nelle diverse aree e che, per esempio, nell’Ue si attesta attorno all’1,6%-1,7% e in Italia scende a circa l’1%. Da ultimo può essere interessante considerare anche l’ammontare dei cosiddetti “altri impieghi” che comprendono in misura crescente oltre alle trasformazioni industriali non alimentari anche le produzioni energetiche. A livello mondiale essi assorbono il 2,6% dell’offerta disponibile mentre nell’Ue a 25 salgono al 5,8% e in quella a 15 al 6,4%, con l’eccezione del nostro Paese in cui si fermano all’1,6%. Quest’ultimo dato induce indubbiamente a più di una riflessione da un lato sulla ridotta utilizzazione da parte dell’Italia della versatilità di impiego del mais e dall’altro sul potenziale che invece essa può rappresentare per il futuro di questa coltura e che deve essere ulteriormente approfondito, soprattutto sul controverso versante degli utilizzi energetici. Un argomento che sempre più si intreccia con il problema più difficile da risolvere, quello della diffusione degli OGM (organismi geneticamente modificati), fortemente contrastata in Europa e in Italia, ma ormai divenuta una concreta realtà nei Paesi maggiori produttori su scala mondiale.
Tratto da: “Il mais” – Coltura & Cultura, AA.VV., Script Edizioni